Il tempo di una notte infinita

Se siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, allora è giusto dedurne che la nostra migliore fibra esistenziale è composta perlopiù da colpevoli speranze, e perlomeno da desideri irrealizzabili.

Nei sogni esprimiamo la nostra creatività maggiore, e quanto più ci teniamo, tanto più quel desiderio ripetuto ogni notte si allontana dall’avverarsi.
In quel caso, infatti, non avremmo più bisogno di sognarlo, ma soltanto di viverlo quotidianamente, nella vita reale e non in quella fantastica(ta) al chiaro di luna.

C’è un’espressione, molto semplice, che rende l’idea di quanto appena detto: una volta compiuta l’impresa insperata, quando la smania notturna diventa finalmente realtà, «sogniamo a occhi aperti».
Non smettiamo quindi di rivestire di una qualche potenzialità infinita quello che abbiamo ottenuto, ma questa volta lo facciamo aprendo gli occhi, prendendo con-tatto con la vita reale e provando a calare nella normalità quello che fino a qualche luna prima era solo un dolce, e traumatico, risveglio.

Impresa facile? Non proprio.

Tutto ciò che immaginiamo, infatti, assume esattamente la forma dei nostri desideri: una ragazza piena di difetti, nei viaggi notturni, può trasformare quelle sue mancanze in punti di forza; il “lavoro dei sogni” può non costare fatica se dura il tempo di qualche sbadiglio; perfino la caponata può diventare dietetica di notte.
E’ per questo che gli artisti, a qualsiasi categoria essi appartengano, preferiscono l’oscurità delle ore piccole per esprimere al meglio il loro talento: in tre parole, è più geniale.

L’unico inghippo è mantenere le promesse allo spuntar del sole.

E qui viene il bello della storia.

Se infatti sognare di notte è piuttosto semplice (istruzioni per l’uso: pensa intensamente a una cosa o persona, moltiplica per 100 i suoi pregi, disegna tutti i futuri possibili in cui andrà bene, e poi vai a letto), farlo di giorno è un po’ più complicato, ma di sicuro non ti deluderà (ti spiego il perché qualche riga più in basso).

Lettore, fermati un attimo e fatti questa domanda: «qual è quella volta in cui mi sono sentito più felice, quella in cui ho creduto di tenere il mondo in mano, quella volta che ho pensato che la vita è così bella che non me ne frega un cazzo dei minuscoli problemi che possono capitare, e improvvisamente mi sentivo il più figo del mondo?».

Alcuni penseranno a quando hanno preso in mano il loro bambino appena nato, qualche chilo di miracolo e poco più; altri a quando hanno fatto l’amore per la prima volta, con quelle lacrime così belle durante la strada di ritorno a casa da uscir fuori anche dai pori del braccio; altri ancora penseranno a quando, lasciandosi alle spalle quella brutta esperienza, hanno finalmente ricominciato, non daccapo a ciclo continuo, ma da quel momento esatto in poi, senza più ripetere gli errori commessi.

Nessuno di noi penserà a un sogno come il momento più felice della propria vita, neanche se in quelle ore eri bella come Emily Ratajkowski o avevi il conto in banca di Ronaldo.

Per meravigliarci di qualcosa dobbiamo viverlo, poterlo toccare con le mani e mordere con tutta la forza che abbiamo, altrimenti diventa come il profumo che tieni nell’armadietto del bagno: ti sta bene addosso, ma molto presto ne svanisce l’effetto.

Mantenere una promessa al mattino, anche piccola, è meglio di un “ti amo” detto per caso, o per sbronza, nel pernottamento dalla realtà.
Avrà pure un sapore afrodisiaco, ma non ci puoi costruire una capanna.

E’ per questo che sognare di giorno, come ho scritto prima, non delude, perché ha in sé tutto ciò che serve per diventare possibile.

La realtà non delude. La realtà si costruisce.
E pazienza se per farla diventare come desideri dovrai lottare contro ogni probabilità a tuo sfavore, ma la felicità si vende a prezzo di fatica.
Basta non aver paura di andare avanti, di cambiare quella cosa in cui ti trovi bene ma che non è ancora tutto ciò che puoi essere, basta insomma non accontentarsi, perché anche se le cose belle non sono difficili, questo non vuol dire che non bisogni lottare per ottenerle: chi si accontenta si sottovaluta, e invece dovrebbe lasciarsi travolgere da ciò che gli capita anche se stava cercando altro (serendipity) per essere realmente felice (altrimenti tradisce prima di tutto sé stesso, oltre che l’altro/a, perché basta anche solo quel pensiero o quel gesto che vorresti compiere, ma non fai, a rompere un meccanismo già andato).

E la spinta per farlo, paradossalmente, ci viene proprio da quei desideri notturni che da soli possono non significare nulla, ma in realtà sono il motore delle nostre azioni concrete: la vera forza sta nel trasformare quel messaggio inviato con un po’ di tremore sotto le lenzuola, nella scelta da fare domani mattina.

Solo così capirai che c’è molto di più, se scegli di rischiare per provarci: «se sognare un po’ è pericoloso, il rimedio non è sognare di meno ma sognare di più, sognare tutto il tempo», diceva Marcel Proust.

Amare qualcuno, in fondo, è già un’impresa insperata di per sé, un rischio pericolosissimo: ma veramente vogliamo stare con qualcuno che ha tutti quei difetti, quel carattere impossibile e quella tendenza continua ad annientarci? Vista così, la risposta è ovviamente no. Ma il trucco sta nel condividere. Nel pensare che anche quella cosa schifosa di lui/lei, in realtà è unicamente nostra. E nel credere che qualsiasi cosa che non sia come te l’aspettavi, non deve essere per forza un difetto (il cui significato proprio è mancanza), ma si tratta semplicemente di qualcosa di diverso. E si può stare insieme sia con qualcuno con cui condividi tutto e che ti capisce al volo, sia con qualcuno che ti rapisce al volo e con cui l’unica cosa in comune è la voglia reciproca che continui a essere così, più del massimo, il motivo in più per cui ti svegli felice.
Perché l’amore è una scelta, basta volerlo. E l’unica ricetta possibile è la presa mentale, il generatore di corrente del desiderio, pronto ad accendersi solo con qualcuno che quando parla ti faccia venir voglia di ascoltare.

«Fai bei sogni. Anzi, fateli insieme. Insieme valgono di più» dice il mio amico Gramellini.

La vita è quel posto bellissimo dove smetti di sognare a occhi chiusi e continui a farlo nella vita reale.
Perché sebbene della frase che ho messo all’inizio tutti ricordano solo la prima parte, lui l’aveva scritta così: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I).

Buon sogno a tutti, e che duri il più a lungo possibile: il tempo di una notte infinita.

In libertà

Scrivere qualcosa su Noa è già difficile di per sé, figurarsi scrivere qualcosa di intelligente in proposito: incappare nei tranelli della coscienza sociale è la risposta più immediata per mancanza di riferimenti pratici. Quindi, questo non sarà l’intento dell’articolo.

Piuttosto, l’aspetto sul quale voglio concentrarmi è un altro.
Un suo amico ha dichiarato che, prima di morire, «parlava con un filo di voce, sorrideva mestamente, era serena. Il dolore psicologico può essere più feroce di quello fisico. Il suo è stato insopportabile. Mi ha dato l’idea di essere molto serena al pensiero che di lì a poco sarebbero cessate le sue sofferenze».

Desiderare di morire, per non soffrire più.

Immagino che per la ragazza questa dovesse essere l’unica risposta possibile, altrimenti non avrebbe deciso di farla finita.
Nella sua visione della vita, non c’era un’alternativa.
Fine, e basta.

I traumi hanno come conseguenza o la negazione dell’evento, o la trasformazione in seguito a esso, scontando per la vita colpe precedenti. Quasi mai una svolta positiva.
Noi però possiamo essere l’alternativa di successo per qualcun altro, la scelta fra “come sono diventato” e “come posso diventare”, a patto però di non pretendere l’alternativa di noi stessi, altrimenti il primo passo diventa già l’ultimo.

Se per Schopenhauer la vita è sofferenza, agli esseri umani basta circondarsi di anticorpi naturali, quali il successo, la fortuna, la famiglia, per anestetizzare il dolore e sopravvivervi.

Ma non tutti riescono ad aggrapparsi ad una forza capace di dare una spinta maggiore di quella negativa generata dalle insoddisfazioni, da un passato colpevole, dall’essere costantemente una vittima.

Le vittime non vanno giudicate, né comprese.
Le vittime vanno osservate, come il silenzio che accompagna un lutto inaspettato, per capirci di più.
Vi capita mai di ripensare alle cose a cui tenete, quando avete paura? Di voler parlare con qualcuno che non sentite da tempo, quando sentite di una tragedia accaduta vicino a voi? Di fare quella pazzia che avete sempre sognato, quando avete la sensazione che potreste non farla più?

Capirci di più significa legarsi alle cose più forti.
E minore è la possibilità di realizzarle, più le desideriamo.

C’è stato un ragazzo che, un mese dopo la morte della fidanzata, è andato nello stesso ospedale dove era morta lei, gettandosi dalle scale dopo aver gridato «ti amo, ti sto per raggiungere».

Era forse debole?
Possiamo dire che Noa era una ragazza debole?

Forse sì, ma scegliere di morire gli sarà costato tanto: pensate un momento prima di cadere nel vuoto, la paura che doveva stringere la gola del ragazzo; o il fremito di Noa quando ha capito che stava finendo.
Non credo che possiamo definirle scelte da deboli, sicuramente hanno avuto coraggio, anche magari scappando dalla vita.

A noi non resta che rispettare, forse anche compatire oppure invece disprezzare scelte del genere.

Nessuno può essere certo di fare la cosa giusta, però c’è un metodo per farle in maniera migliore:

  • vuoi imparare a scrivere? Scrivi
  • vuoi imparare a nuotare? Nuota
  • vuoi imparare a vivere? Vivi.

Il resto, verrà da sé.